Discussione su riforma mercato lavoro

Qualche giorno fa dibattevo, via mail, con alcuni amici di Innovare PD, sulla riforma del mercato del lavoro e vi è chi attribuisce all’azione sindacale la colpa della situazione attuale di drammatico dualismo tra chi è protetto e chi no

Pur ammettendo che i sindacati non possono rappresentare ovviamente tutto il mondo del lavoro, non sono sicura che peggiorare le condizioni lavorative di chi è stabile migliori automaticamente le condizioni di lavoro di chi è precario o disoccupato
L’Art. 18 ormai rappresenta solo un rapporto di forza (riporto un mio post del dic 2011)
Sintetizzo al massimo il mio pensiero: Il capitalismo che ci ha regolato fin’ora si basa in massima parte su questo ragionamento: “io sono l’imprenditore, ci metto il capitale, rischio il mio, e quindi decido chi, come, dove, quando, perchè.
Ora questo ragionamento prescinde dall’accettazione della “socialità” del lavoro in sè e quindi del lavoratore
Il lavoro è considerato un mezzo per arricchire se stessi attraverso l’azienda che si possiede. (E nemmeno l’unico mezzo, visto che la parte di capitale spostatasi nell’area finanziaria è andata aumentando fino alle varie bolle scoppiate nell’ultimo decennio in tutto il mondo).
L’equazione starebbe in piedi se l’imprenditore si comportasse coerentemente. Ma quante volte allunga la mano sugli aiuti pubblici e poi porta il guadagno nei conti segreti in Svizzera o San Marino ? E quanti sono gli evasori fiscali che allegramente rubano a tutti, compreso ai loro dipendenti, e lo ritengono anche normale o perfino giusto ?
A questo tipo di imprenditore ogni regola dà fastidio. Soprattutto l’Art. 18
E cosa dice l’Art. 18 ? Che non puoi licenziare senza giusta causa e se licenzi senza giusta causa, in ultima istanza, se non trovi l’accordo economico con il lavoratore lo devi riassumere.
Perchè l’obbligo di riassumere il dipendente licenziato senza giusta causa, è quanto di più insopportabile per l’imprenditore ? Perchè vuole essere lui a determinare quale è la “giusta causa” per lui.
Può essere la maternità, piuttosto che l’iscrizione ad un sindacato, o la volontà di far rispettare le norme sulla sicurezza, o una risposta negativa a richieste esagerate, o la partecipazione ad uno sciopero. E tanti altri i motivi che ogni imprenditore potrebbe valutare come “giusta causa” per sè.
E’ su questo rapporto di forza che, secondo me, tutto il castello è costruito
E’ anche vero che negli ultimi anni si è cercato di recuperare o meglio instaurare il concetto di “responsabilità sociale delle imprese”
> Nel Libro Verde della Commissione Europea, edito nel 2001, la responsabilità sociale è definita come: “L’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ambientali delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate”[…].
> Particolare attenzione viene prestata ai rapporti con i propri portatori d’interesse (stakeholder): collaboratori, fornitori, clienti, partner, comunità e istituzioni locali, realizzando nei loro confronti azioni concrete. […]

Ma quanti sono questi imprenditori ? Soprattutto quelli impegnati nella green economy, che di certo sono molto pochi rispetto alla totalità.

La CGIL avrebbe dovuto iniziare a ragionare con Ichino almeno 5-6 anni fa, trovando o almeno cercando con determinazione un punto di equilibrio proponendolo poi da protagonista. Nelle occasioni in cui ho potuto farlo mi sono spesa per questo, ovviamente senza alcun successo. (per chi ha voglia e tempo di leggerselo ecco il mio post del 11.3.2010)

Ora è tardi e tutti si dovranno adattare alle decisioni prese dal governo, chi ne sarà felice, chi si sentirà definitivamente sconfitto, e chi rimarrà in perenne ansia di essere licenziato, come me, nel caso di sciopero o per manifesta appartenenza politica contraria a quella dell’imprenditore.

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