Non sei tu

Gabriele si era svegliato con un po’ di mal di schiena e un fastidioso ronzio ad uno orecchio. Cercando di tirarsi su dal letto era rimasto interdetto. Una inequivocabile cannuccia trasparente scendeva fluida dal cielo e stava appoggiata leggera sul lenzuolo bianco. Finiva nel suo avanbraccio fissata da un cerotto.

Realizzare cosa era successo gli risultò alquanto difficile, perché si trovasse in ospedale non riusciva ad immaginarselo. Cercò il tasto per chiamare un’infermiera, senza però trovarlo.

Riuscì a mettersi semiseduto, pur con i dolori alla schiena che non facevano presagire niente di buono e si guardò intorno. Nella stanza c’era un altro letto, vuoto. Il suo era quello più vicino alla porta, ma dalla finestra con la tapparella un pò abbassata, poté vedere che era quasi buio. Non c’erano orologi nella stanza e non riusciva a capire che ora fosse.

Brutta sensazione, non sapere bene in che situazione ci si trova. Fece mente locale, si ricordava bene chi era, Gabriele Malvesti, 37 anni, geometra, una ex moglie, Silvana, niente figli, genitori morti nel terremoto di 3 anni prima. Un fratello emigrato in Nuova Zelanda.

“Ok –  pensò –  prima o poi verrà qualcuno a dirmi perchè sono qui”

Arrivarono in due, una bionda un po’ in carne, con gli occhiali verdi, e una negra, ossuta, occhi penetranti e la ricca chioma raccolta in un nastro arancione.

“come si sente?“  fece asciutta la bionda

“ perché sono qui?” rispose lui contrariato

La nera controllò la cartella ai piedi del letto. Non c’era.

Rispose con un leggero accento inglese.

“Mi dispiace, noi iniziamo ora il turno. E’ stata una giornata pazzesca e non c’è stato il tempo di passare le consegne. Come si chiama?”

La bionda nel frattempo era entrata nel bagno e armeggiava con qualcosa di metallico.

Come sarebbe, “come mi chiamo”, pensò, si stava quasi inalberando, ma dolori e ronzii lo fecero desistere dall’ avviare una discussione.

Cercando di mantenere il controllo della voce rispose

“Sono Gabriele Malvesti, non so bene come mai sono qui, gentilmente volete dirmi qualcosa? Che ospedale è, che giorno è, che ora è…

La bionda era uscita portandosi via un bidoncino, senza girarsi né salutare.

“Sono Jeena Freemont, vado a cercare la sua cartella e torno.” Diede una rapida occhiata al flacone, ce n’era ancora più di metà. Fece un mezzo sorriso e uscì.

Gabriele, era rimasto lì, ammutolito, incredulo.

“Ma che diavolo sta succedendo? Ok, vediamo di scendere da qui e andare a cercare qualcuno.”

Guardò la flebo, e il braccio. Era troppo complicato togliersi l’ago, decise quindi di scendere da quella parte e tirarsela dietro.

Si mise seduto e si guardò le gambe. Aveva indosso uno di quei camicioni larghi che si allacciavano dietro, era senza calzoni e anche senza mutande. Questa cosa lo infastidì decisamente, ma cercò di non soffermarsi troppo. Non c’erano ciabatte per terra, poggiò incerto i piedi. Ma non appena fece per alzarsi, gli arrivò una fitta alla schiena che lo lasciò senza fiato.

Rimase così seduto, goccioline di sudore si stavano raccogliendo sulla fronte e sulla schiena lungo la linea della vita. Cominciò a contare, dieci secondi, venti, trenta. Il dolore si stava molto lentamente calmando. Gli prese un po’ di rabbia, che si trasformò rapidamente in agitazione per poi culminare nella chiara consapevolezza che proprio non sarebbe riuscito né ad alzarsi, né tantomeno ad andarsene in giro.

Con tutta la pazienza che poteva radunare stava cercando un centimetro alla volta di riportarsi steso sul letto, quando Jeena tornò con la sua cartella in mano. Decise di sentirsi sollevato da quel ritorno ed invece di seguire l’istinto e proferire una lucida bestemmia, disse semplicemente. “volevo andare in bagno…”

Jeena lo guardò con disapprovazione. Lo aiutò a rimettersi a letto e gli porse il pappagallo.

“Jeena, mi dica cosa succede la prego”

“Signor Malvesti, lei è qui da 2 giorni, ha avuto uno svenimento, è caduto battendo la schiena, stiamo facendo accertamenti. Adesso si tranquillizzi, vedrà che si sistemerà tutto”

“ma … datemi almeno un paio di mutande, un pigiama!”

“più tardi, per ora riposi”, uscì, portandosi via la cartella.

Gabriele cercò di riflettere, ma non riusciva a trovare l’ultimo ricordo, dove era due giorni prima, cosa stava facendo, gli occhi si stavano chiudendo, il flacone della flebo era finito.

La mattina dopo si destò d’improvviso, come se qualcuno avesse spinto un interruttore. Prima di fare qualsiasi movimento, lasciò vagare lo sguardo, trasalì. Non era nella stanza che ricordava. Vicino al suo letto, sulla destra, c’era un armadietto a quattro ante, la finestra era più piccola, un orologio stava appeso di fronte, segnava le 6,35. Non c’era nessun altro letto, anche se lo spazio l’avrebbe consentito. La flebo era nell’altro braccio ed era circa a metà.

La schiena gli faceva sempre male, tanto che anche respirare gli risultava doloroso. Stava cercando di sollevarsi un po’ quando entrò la “biondaocchialiverdi”, trascinando un carrello.

“Signor Malvesti, qui c’è la sua colazione”, si avvicinò alla finestra e spinse un pulsante che magicamente sollevò la tapparella, poco, una decina di centimetri forse e si stava avviando ad uscire.

“aspetti, per favore mi aiuti, io non riesco a muovermi, non ce la faccio a prendere la colazione”

Si fermò un attimo prima di rispondere, stringendo un po’ gli occhi, o così gli parve. Prese la tazza con coperchio e la piccola confezione di biscotti e li appoggio delicatamente sul comodino mobile. Poi manovrò fino a posizionarlo proprio davanti a lui e bofonchiò:

 “non mi posso fermare, ho un sacco di lavoro, più tardi verrà la dottoressa Freemont”. Strinse di nuovo gli occhi e uscì.

“Si vede che gli occhiali non vanno bene” si trovò a pensare Gabriele

Si sentiva depresso, proprio non aveva voglia di mangiare nulla, tuttavia si era accorto di avere le mutande, pur essendo ancora in camicione e questo lo aveva sollevato un po’. In effetti, non gli era ben chiaro come avesse fatto pipì in tutto quel tempo. E comunque come diavolo avrebbe potuto prendere il pappagallo che stava sotto al comodino?

Realizzò che era meglio mangiare qualcosa, doveva assolutamente recuperare un po’ di energia e capire chi, come, cosa, quando, perché…

Sul bordo del letto trovò a tentoni una tastiera, al terzo tentativo finalmente lo schienale si alzò. Era combattuto tra il dolore che provava alla schiena e la volontà di volersi alimentare.

Ci riuscì in qualche modo sporcando un po’ il comodino, scoprendo che il caffelatte era dolce e caldo e i biscotti al burro un vero toccasana.

Aveva l’odiosa sensazione che mancassero dei pezzi a quel puzzle. Si concentrò, si forse qualcosa gli tornava in mente, ricordava vagamente di essere caduto dall’alto, ma dove era?

Entrò la dottoressa Jeena, assieme ad un giovane nasuto, l’aria concentrata e i capelli scomposti.

Jena lo guardò, con un lieve sorriso, gli disse

“Signor Malvesti, lei è caduto da un’impalcatura, ha battuto la schiena su uno spigolo sottostante, ha 5 costole rotte. Non è possibile ingessarla, dovrà rimanere qui a lungo, possibilmente muovendosi il meno possibile.”

Gabriele sospirò piano, non ricordava niente, ma era plausibile ed in un certo modo si sentì confortato. Non era il primo ad avere un incidente sul lavoro. Braccia e gambe funzionavano, sarebbe stata dura ma ce l’avrebbe fatta.

Avrebbe voluto dire qualcosa, ma di nuovo gli occhi erano pesanti li chiuse davanti al bel faccino nero, la flebo era finita.

Di nuovo quando si svegliò ebbe subito la percezione di non essere più nella stanza precedente, ma perché diavolo lo spostavano di continuo se non doveva muoversi?

Superato il momento della diagnosi, si risvegliò quella brutta sensazione che lo avvolgeva dall’inizio, penetrando nella pelle e nella mente come gelida nebbia. Era quasi sera, quindi aveva dormito tutto il giorno. Ma perché lo tenevano addormentato? Ok il dolore era intenso, ma con qualche pillola si poteva controllare da sveglio.

La flebo era a metà, d’impulso decise che non avrebbe fatto tutta la dose, voleva stare sveglio, non dormire. Aveva bisogno di riflettere, connettere i pensieri.

Per fortuna la flebo era sul braccio sinistro, armeggiò un po’, finchè riuscì a staccare la lunga cannuccia dalla farfallina, la mantenne però vicina, sotto il lenzuolo, il contenuto sarebbe finito direttamente nel materasso, lasciando poche tracce.

Bene, ora non restava che aspettare, qualcuno sarebbe arrivato.

Infatti entrò la bionda con il carrello delle medicine, ma non era sola, c’era con lei il ragazzo nasuto del mattino. Gli diedero un’occhiata distratta, lui accennò un sorriso.

Mentre lei predisponeva un nuovo flacone per la flebo e un paio di flaconcini più piccoli sul comodino, il ragazzo si era avvicinato, aveva guardato prima lui poi regolato da discesa della dose, rallentandola un pò. Non si era accorto di nulla. Anche Gabriele la guardò, mancava poco alla fine, avrebbe dovuto fingere.

“Scusi, vorrei avere il mio cellulare, devo chiamare qualcuno…” abbassò lentamente le palpebre e chiuse gli occhi. Gli riuscì bene, tanto che la bionda e il ragazzo iniziarono a parlare tra loro.

“poveretto, un po’ mi dispiace” diceva lei

“e perché? È uno sconosciuto qualunque”

“sì, hai ragione, è più semplice, non è ancora venuto nessuno a cercarlo. Per fortuna che c’è la Jeena a prendere queste decisioni”

Uscirono

Gabriele era in subbuglio, più semplice cosa? quali decisioni? cosa era un complotto?

Cercò di inspirare profondamente, accorgendosi subito del dolore che gli provocava. Una situazione inverosimile, non riusciva a capire, né era possibile ragionarci sopra. Doveva assolutamente recuperare il cellulare, avrebbe chiamato Eugenia, la sua segretaria allo studio, aveva vent’anni più di lui, ma era una macchina da guerra, precisa ed instancabile. Quella settimana era in ferie, ma alla sua chiamata avrebbe sicuramente risposto.

Cercò nel cassetto del comodino, senza trovare nulla. Nella stanza c’era un armadietto, era sulla parete di fronte, immaginò che dentro ci fossero i suoi abiti, le chiavi, il portafoglio, il cellulare.

Come poteva raggiungerlo? Aveva tempo, pensò. Se lo credevano addormentato, non sarebbero tornati tanto presto.

Elaborò a mente una discesa dal letto, sarebbero bastati 4 o 5 passi, niente di più.  Si sarebbe aiutato appoggiandosi al comodino, che aveva le ruote.

Con un certo ottimismo iniziò il suo piano, con fitte e imprecazioni, era arrivato all’armadietto, un piccolo rivoletto di sangue gli scendeva dalla schiena lungo una gamba, ma lui non se ne era accorto.  Aprì la piccola porta quasi con violenza, l’armadietto era vuoto.

Fu allora che entrò Jeena. Non si aspettava certo di trovarlo sveglio. Lei lo guardò con un lampo gelido. Si toccò il cartellino con il suo nome che portava sul taschino del camice.

A Gabriele parve che il nastro per i capelli arancione si fosse mosso, o forse aveva cambiato colore.

Jeena si era girata verso l’armadietto e ora gli veniva incontro, neutra, senza parlare, con una siringa in mano. Lui non poteva certo fare nessuna resistenza.

“Jeena, che cosa succede, qui mi pare di essere in un incubo, perché mi tenete sedato, dove sono veramente? Voglio un cellulare! Devo chiamare…

Jeena non si scompose, stava ormai infilando l’ago nel braccio. Gabriele riuscì a prenderle un polso con forza, nel contatto si era accorto di qualcosa e cacciò un urlo agghiacciante.

“Signor Malvesti, lei non ha nessuna possibilità di sopravvivere, ho deciso di abbreviare la sua esistenza. Questo produrrà un risparmio di 23.750 pàrlin…”

L’urlo si stava spegnendo, gli occhi vitrei però erano ancora vivi di muta angoscia. Jeena proseguì

“…le costole hanno perforato i polmoni, oltre all’intervento chirurgico ho calcolato le problematiche pre-operatorie, le difficoltà post-operatorie, le necessarie cure di degenza, i costi della riabilitazione…”

Jena era un robot.

Questa voce è stata pubblicata in racconti e altro ancora e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *